Chi intende assumersi la responsabilita’ di insegnare Kendo (perche’ e’ in termini di responsabilita’ che io interpreto la definizione) deve in primo luogo fare chiarezza sull’obiettivo personale che vuole raggiungere. Aver il titolo di insegnante non implica automaticamente che si creda nell’utilita’ dell’insegnamento per la propria pratica, anzi e’ una lamentela frequente quella di chi “non riesce ad allenarsi, perche’ deve insegnare”. Al di la’ dei casi in cui questa affermazione sia solo un alibi per tirare il fiato e riposarsi sugli allori, occorre da parte dell’insegnante onesto una analisi lucida sul “come” renderlo utile effettivamente.
L’insegnante ha in realta’ una enorme opportunita’ – dovendo essere da esempio per gli altri praticanti, non puo’ fare meno o peggio di loro. Organizzando razionalmente la lezione, gli insegnanti posso praticare con i propri allievi e trovare spunti di miglioramento anche negli esercizi per i principianti – la fase del consiglio o l’appunto dettagliato sul singolo individuo possono aspettare il termine della lezione, in modo da non interrompere il fluire in crescendo della pratica.
Se l’insegnante percepisce come utile il lavoro che sta facendo, non puo’ intervenire nemmeno l’usura da insegnamento, che spinge tanti kenshi di alto livello tecnico a rinunciare alla conduzione della pratica, che altresi’ e’ un punto inevitabile di passaggio verso una ulteriore crescita personale.
Nella dedizione che un insegnante dimostra verso i propri allievi deve in un certo senso essere presente anche un fine sanamente egoistico: se essere superati tecnicamente dai propri allievi e’ una grande fonte di orgoglio, d’altra parte un feroce desiderio di miglioramento deve essere costantemente presente, per consentire un rapporto equilibrato con il lavoro costante nel dojo.
L’insegnante che abbia i mezzi per farlo (e in una fase di crescita come quella che il Kendo italiano sta affrontando, questo non e’ scontato) deve in primo luogo trasmettere una conoscenza tecnica: ma, non appena il praticante abbia superato la soglia del neofita, anche trasferire la responsabilita’ della propria pratica e di quella dei compagni.
Ugualmente, se un insegnante e’ straordinario dal punto di vista atletico, non necessariamente da’ garanzie di trasfondere la propria eccezionalita’ agli allievi.
L’insegnante che non possa dare dimostrazione pratica di un buon livello tecnico, sicuramente si trovera’ in difficolta’ – ma anche chi sia all’estremo opposto dello spettro potrebbe essere esposto al fallimento. Quindi quale dovrebbe essere l’attitudine ideale dell’insegnante, a prescindere dalla propria capacita’ tecnica? Dopo molta riflessione e dopo svariati anni di esperienza, direi che l’atteggiamento piu’ responsabile che si possa tenere e’ quello di tenere aperta la visione dei propri allievi – dopo aver dato loro un metodo affidabile di allenamento e una educazione di base sui comportamenti, gli allievi vanno incoraggiati quanto piu’ possibile a provare altre modalita’ di pratica, accedendo a seminari nazionali e internazionali, ricercando il contatto con altri gruppi, sia affrontando esami, sia confronti arbitrati.
Se le nostre capacita’ tecniche sono limitate, non dobbiamo incorrere nell’ulteriore errore di tenere i nostri allievi nella nostra ombra. Il massimo risultato che potremmo ottenere e’ una pletora di copie piu’ scadenti della nostra gia’ scadente pratica. Come insegnanti abbiamo il dovere di dare ai nostri allievi i mezzi per uscire dal guscio, insegnando loro a comportarsi in modo adeguato e fornendo una opportuna conoscenza di base, che consenta loro di accedere all’insegnamento anche di altri. Nella conoscenza di base, includo senz’altro anche la pratica sincera dell’etichetta del Kendo.
Se siamo ragionevolmente certi della correttezza del nostro gesto tecnico, non siamo comunque esentati dal fare lo stesso tipo di lavoro. Cio’ che ha giovato a noi e ci ha permesso di raggiungere un certo livello, potrebbe esserci stato comunicato in modi che noi stessi non riusciamo a replicare, o, semplicemente, un allievo potrebbe non recepire un insegnamento negli nostri stessi tempi o secondo gli stessi canali che ci hanno giovato.
In questo senso, il lavoro sistematico e costante nell’ambito del proprio dojo deve offrire agli allievi gli opportuni strumenti per orientarsi fra le diverse “offerte” di pratica, dando una chiave di lettura e di valutazione del lavoro che puo’ essere svolto occasionalmente sotto la guida di altri insegnanti. Fornendo un “linguaggio” corretto e una etichetta rigorosa, si aprono le porte alla fruizione dell’insegnamento di altre voci, che gli allievi sapranno cosi’ mettere a confronto per poterne trarre il massimo vantaggio.
Vale comunque la pena di rimarcare che l’insegnante deve mostrare sensibilita’ per la sicurezza e l’integrita’ fisica dei propri allievi, misurando il tipo di esercizi che propone nel dojo. Un buon modo per rendersi conto dello sforzo a cui si sottopongono i propri allievi e’ in primo luogo eseguirli in prima persona. L’insegnante con il fischietto, se non supportato da una adeguata esperienza, rischia di perdere di vista il vero carico a cui sta sottoponendo i propri allievi – che possono essere di tutte le eta’ e di diverse condizioni fisiche. Nel Kendo una buona dose di stoica sopportazione della fatica e’ necessaria – ma l’insegnante deve essere il primo a provare l’esperienza dell’affaticamento, se vuole calibrare con criterio gli esercizi che propone.
Una impostazione razionale e una conduzione coerente della lezione tipo sono anche compito primario dell’insegnante – il quale non puo’ affidarsi troppo alla fantasia, per quanto la capacita’ di proporre varianti degli esercizi sia un buon modo di tenere alta la soglia di attenzione dei propri allievi, anche nella ripetizione di movimenti consueti.
L’insegnante deve farsi carico della completa fruizione del tempo a disposizione di tutti i partecipanti alla pratica. La capacita’ di organizzare parallelamente il lavoro di gruppi di livello diverso e’ talvolta indispensabile. Questo e’ l’inevitabile corollario del fatto che l’insegnante non puo’ semplicemente concentrasi sulla tipologia di esercizio che in quel momento ritiene utile per se’ , bensi’ deve farsi carico di mantenere concentrati e muscolarmente attivi tutti i propri allievi. Pause troppo lunghe – anche per somministrare spiegazioni teoriche – non aiutanto a creare quella spirale ascendente che porta i praticanti alla massima intensita’ dello sforzo che si raggiunge al termine della lezione.
Per ricondurmi infine all’aspetto sociale del Kendo, non posso non citare il rapporto indispensabile con i senpai del proprio dojo. L’insegnante deve accertarsi che essi siano in grado di replicare la formula della pratica con continuita’, in modo da fungere da sostituti in caso di necessita’.
E’ opportuno che l’insegnante abbia modo di consigliarsi con altri membri del gruppo, per raccogliere i segnali che potrebbero sfuggirgli durante la pratica. Il ruolo dello “spogliatoio” o della birra post-allenamento non devono essere sottovalutati, proprio nell’ottica della creazione di un ambiente armonioso, in cui le domande degli allievi trovino risposta senza interrompere la pratica e in cui il gruppo riesca svolgere la propria funzione di accoglienza e di “educazione” dei nuovi arrivati.
Concludendo, l’insegnante deve faticare, comunicare, crescere assieme ai propri allievi – e non puo’ prescindere dal sentirsi responsabile, nel senso piu’ ampio, del progresso collettivo, anche quando puo’ permettersi di farsi assistere dai propri senpai.
Senza questa attitudine e questo senso di proposito, l’esperienza dell’insegnamento puo’ essere solo frustrante o tramutarsi in uno sterile esercizio di narcisismo – di cui il Kendo in generale, ed il Kendo italiano in particolare, puo’ francamente fare a meno.
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